Casi di successo 04 luglio 2016

IL FASCINO DISCRETO DEL MADE IN ITALY...

Ecco una definizione che potrebbe suonare lusinghiera: «L’Italia sarebbe un Paese perfetto per avere successo con il digitale».

Gli ingredienti non mancano e sono «la capacità del fare, con la nostra industria manifatturiera seconda in Europa solo alla Germania, e la capacità attrattiva del Made in Italy, che grazie alla tecnologia si può comunicare con costi vicini allo zero».

 

A parlare è Fabio Vaccarono, country director per l’Italia di Google, convinto della necessità di premere sull’acceleratore della digitalizzazione per il business Made in Italy. Il Bel Paese di progressi ne ha fatti in quest’ambito: la banda ultralarga sta portando sempre più italiani in rete e per i consumatori italiani passare da contesti digitali a contesti fisici nell’ambito dello stesso acquisto è ormai perfettamente naturale. Eppure, proprio un recente studio della società simbolo dell’era digitale, vede l’Italia ancora indietro in Europa.

 

 

 

Cosa manca dunque all’Italia?

 

Manca l’ultimo tassello della catena, ossia il sistema dell’offerta. Il tema culturale sul quale bisogna lavorare oggi è la riluttanza dell’azienda italiana rispetto all’economia digitale. In Italia abbiamo tante eccellenze tra le Pmi. Ma proprio i vincoli legati a una dimensione più limitata di un’azienda rispetto ai colossi mondiali possono essere superati grazie alle nuove opportunità offerte da Internet. Non essere attivi sulla Rete rappresenta una minaccia crescente.

 

Una minaccia, ma anche uno spreco di opportunità, a giudicare dal successo del Made in Italy sul web…

 

Sì. Le ricerche che hanno a che fare con il Made in Italy sono in crescita stabile e sistematica nel tempo, a doppia cifra sui dispositivi tradizionali, a tripla cifra anno su anno su dispositivi mobili. Molti settori tradizionali legati a logiche di distribuzione fisiche hanno già trovato opportunità inimmaginabili di riconversione della propria filiera in senso digitale. Penso alla moda, ai beni di lusso. Alcune nostre ricerche hanno dimostrato come gli acquirenti di beni di lusso abbiano molte più capacità di spesa che di tempo.

 

Google 1

 

Le opportunità per i beni di consumo sono piuttosto evidenti, ma la situazione è diversa per i beni intermedi e di investimento.

 

Certamente, ma le opportunità ci sono anche qui. Innanzitutto occorre ricordare che è in atto una rivoluzione, che è quella del manufacturing 3.0. Il contributo portato dall’innovazione e dall’automazione al processo produttivo permetterà di vedere eccellere quei produttori che non avevano i volumi e la massa critica per competere con i produttori asiatici, ma avevano nella capacità di design i propri punti di forza. Noi oggi abbiamo acquirenti globali, che vengono a cercare eccellenze anche nascoste nella filiera del Made in Italy e che valutano attraverso le informazioni che trovano in Rete la mo - dernità e la capacità di queste controparti di rispondere ai loro bisogni.

 

Dove può arrivare il manifatturiero 3.0?

 

Si sta passando da un modello di azienda “corporation” a un modello “a piattaforma”, dove attraverso la Rete ognuno si concentra sulle cose che sa fare meglio e interagisce con altre aziende che sanno fare un altro pezzo. In questo senso, saper mettere i propri processi in Rete è particolarmente importante. I mercati di sbocco, inoltre, possono ampliarsi anche per aziende che hanno dei mercati più concentrati di quelli che operano in un contesto più strettamente consumer. Io credo che pensare che il digitale sia solo per alcuni e non per altri sia un errore. Credo che qualsiasi azienda dovrà confrontarsi con la discontinuità portata da questa rivoluzione, che non a caso è stata definita “la terza rivoluzione industriale”, ma, d’altra parte, credo che per la capacità media che hanno i nostri produttori, le opportunità siano molto superiori ai rischi. E quindi conviene partire rapidamente e con determinazione.

 

Come spiega le resistenze di alcune aziende? Pregiudizi da sfatare?

 

Esiste la convinzione che per andare in Rete occorrano investimenti ingenti. Eppure abbiamo visto che i tre quarti delle aziende fallite negli ultimi cinque anni non avevano un proprio sito Internet; al contrario, abbiamo visto che le aziende – seppure piccole – che erano attive online avevano una capacità di esportare con una velocità anche dieci volte maggiore delle altre. Occorre creare un ecosistema di persone che professionalmente affianchino i nostri imprenditori per aiutarli a farli sbarcare in Rete.

 

Quali gli ostacoli da superare?

 

Alcuni attengono alle professionalità. Secondo uno studio condotto da Google con Unioncamere, gli imprenditori che si convincono che Internet è un’opportunità importante per le proprie aziende nel 20% dei casi non trovano i talenti e le risorse adatte a trasformare le proprie aziende in senso digitale.

 

Cosa suggerirebbe a un imprenditore che si affaccia alle sfide della Rete?

 

Il mio primo suggerimento è di partire dalla piena comprensione del modo in cui il consumatore decide, capisce e compra. Spesso molte aziende pensano che diventare digitali significa vendere per forza sulla Rete. È senza dubbio un fatto auspicabile, ma non è un passaggio obbligatorio. Oggi, con un sito fatto bene che si fa trovare quando i consumatori lo cercano, ma anche con la partecipazione ad altre piattaforme che fanno già e-commerce senza bisogno di sviluppare un proprio portale dedicato, si ha già la possibilità di farsi le ossa, di esplorare la Rete senza appesantire la propria struttura finanziaria.

 

Non resta che partire...

 

Sì, e va fatto con molta determinazione perché oggi ogni business è un business digitale.

 

 


 

Italy goes digital

Lo sviluppo delle “smart cities”, la diffusione della banda ultralarga, la valorizzazione delle iniziative in ricerca e sviluppo, la nascita e lo sviluppo delle startup da accompagnare con fondi misti: sono questi gli punti strategici di politica industriale messi in campo dal governo italiano per favorire la “svolta digitale” del Paese, puntando sulla trasformazione dei processi produttivi delle nostre imprese.

 

Il gap da colmare è ancora molto grande, come confermato da un’indagine Istat, secondo cui sette piccole imprese italiane su dieci hanno un sito web, tre utilizzano un social media, ma nove dimostrano un livello di digitalizzazione relativamente basso.

Un risultato che colloca le Pmi italiane ben al di sotto della media europea: in Italia l’87,6% delle imprese con più di dieci dipendenti usano poco o molto poco le tecnologie digitali, a fronte di una media europea del 78%. Considerando le imprese che hanno un sito web, solo poco più di un terzo lo usa per offrire servizi più avanzati, come quelli legati alla tracciabilità delle ordinazioni online o alla personalizzazione di contenuti e prodotti. Inoltre, solo il 13% delle imprese permette ai visitatori del sito di effettuare online ordinazioni o prenotazioni dei propri prodotti.

 

Eppure, mondo digitale e mondo tradizionale sono ormai strettamente interconnessi e permeabili l’un l’altro, e i confini tra le due realtà sono sfumati. E' stato calcolato che da qui al 2020 l’85% delle professioni nell’Unione Europea avrà al proprio cuore un corpus di conoscenze digitali considerate imprescindibili. Da questa previsione la promessa di Matt Brittin, presidente business e operations di Google Emea: «Entro il 2017 formeremo due milioni di europei al digitale».

 

In Italia è già attivo il programma “Crescere in digitale”, realizzato in collaborazione con il Ministero del lavoro e Unioncamere. Il progetto, all’interno di “Garanzia Giovani”, mira a offrire opportunità di formazione a tutti gli iscritti attraverso un percorso di formazione online, laboratori sul territorio e oltre tremila tirocini nelle imprese italiane. I giovani già formati sono 3.880 e sono già partiti i tirocini per trasferire competenze digitali nelle imprese. Un’iniziativa che, forse, contribuirà a sgombrare il campo da un luogo comune molto diffuso e cioè che la diffusione di Internet sia in contrapposizione con ’economia “tradizionale”. 

 

Secondo uno studio dell’Università Cattolica belga di Leuven (KU Leuven), anzi, per ogni posto di lavoro ad alto contenuto tecnologico creato si generano 4,3 posti di lavoro in altri settori nella stessa regione, a conferma anche dei forti effetti di rete sull’economia riconducibili alle tecnologie digitali.

 

Sempre più ricerche mostrano, spiega Google, che le imprese che hanno una presenza attiva sul web crescono più del doppio di quelle che sul web non sono presenti, creano più occupazione ed esportano maggiormente di quelle che non sono online. In questa direzione, nel rapporto L’impatto di Google sull’economia italiana, la società di consulenza Deloitte ha misurato l’impatto sull’economia italiana del motore di ricerca nel corso del 2014 in termini di valore aggiunto e posti di lavoro creati.

 

Lo studio stima che le aziende italiane che usano Google Search e AdWords, il servizio pubblicitario di Google, abbiano generato tra i 2 e i 10 miliardi di euro in attività economica nel 2014 in Italia, e tra i 40 e i 170 mila posti di lavoro. Nel medesimo periodo, i creatori di contenuti che hanno utilizzato le piattaforme di Google – come YouTube o AdSense – hanno generato rispettivamente almeno 30 milioni di euro e 207 milioni di euro in attività economiche e tra i 3.500 e i 4.600 posti di lavoro. Il report sostiene inoltre che il sistema operativo mobile Android di Google abbia contribuito a far crescere il mercato degli smartphone, aumentando la concorrenza, riducendo i prezzi dei dispositivi e allo stesso tempo sostenendo l’ecosistema degli sviluppatori di app.

 

Google 2

 

 

Allo stato attuale, in Italia solo il 5% delle Pmi utilizza l’e-commerce, al quale è imputabile appena il 5% del fatturato complessivo delle nostre imprese. D’altra parte il gap con il resto dell’Ue è percepibile anche quando si tratta dell’esperienza di utilizzo degli utenti: soltanto il 42% di questi fa uso dei servizi bancari online, e solo il 35% acquista tramite Internet, rispetto invece al 73% dei cittadini francesi, al 40% dei greci e all’80% dei tedeschi. In generale, Internet non viene visto come uno strumento utile per le aziende: in Italia, il 40% degli imprenditori dichiara che Internet non serve alla loro attività. Questo significa che su 10 imprenditori, almeno 4 non sono a conoscenza delle potenzialità che offrono la promozione dei propri prodotti sulla Rete e l’esistenza un sito Internet dedicato: per non parlare, poi, degli effetti che l’e-commerce può avere sul fatturato aziendale. Nemmeno i social network vengono percepiti come uno strumento di lavoro: nonostante siano quasi 28 milioni (circa la metà della popolazione totale) gli italiani che utilizzano attivamente i social network, la stessa proporzione non si registra per quanto riguarda le imprese del Made in Italy che dispongono di un account social.

 

Ottimizzando competenze e tecnologie, l’economia digitale potrebbe dare un impulso di 2.000 miliardi di dollari al Pil mondiale da qui al 2020, con una crescita potenziale aggiunta del 4,2% sul solo Pil italiano.

Lo afferma il rapporto Digital Disruption: the Growth Multiplier di Accenture diffuso al World Economic Forum di Davos nei mesi scorsi. Dallo studio emerge un ulteriore impulso all’economia digitale che già oggi vale più di un quinto del prodotto interno lordo mondiale. In Italia l’economia digitale contribuisce oggi per il 18% del Pil, contro il 33% degli Usa, il 31% del Regno Unito e il 29% dell’Australia. La Penisola si posiziona decima – tra le undici nazioni del mondo analizzate dal rapporto Accenture – rispetto al peso dell’economia digitale sul Pil, ma risulta tra i Paesi con le più grandi opportunità di crescita se riuscirà a ottimizzare le sue risorse digitali.

 

Per avvantaggiarsi del digitale, l’Italia dovrebbe indirizzare il 60% del suo impegno supplementare nella crescita digitale verso una migliore applicazione di tecnologie e un 40% nella spinta allo sviluppo dei cosiddetti fattori abilitanti. Negli Stati Uniti, invece, servirebbe solo il 10% in più di digitalizzazione della tecnologia, mentre si avrà un maggiore ritorno incrementando le competenze digitali e i fattori abilitanti.

 

Una delle più grandi opportunità di crescita per le aziende indotta dalla trasformazione digitale è rappresentata dai modelli di business su piattaforma, che consentono alle organizzazioni di creare nuovi mercati e di aggiungere valore riunendo partner e clienti su una comune piattaforma digitale. Applicando modelli di piattaforma, le industrie tradizionali possono beneficiare, secondo Accenture, degli stessi alti tassi di crescita registrati dalle più innovative aziende digitali.

Desideri ulteriori informazioni?
Contattaci al numero 06.6736.888
In alternativa invia una mail a [email protected]

Ultime news

Articoli 18 gennaio 2024
PMI, grandi imprese, associazioni di categoria, istituzioni, rappresentanti di gruppi bancari e del mondo universitario hanno partecipato alla quinta edizione del Forum Multistakeholder nella sede di Roma di SACE per ascoltare e raccogliere i diversi punti di vista sulle tematiche ESG. L’obiettivo è quello di indirizzare le proprie strategie verso quelle che sono le reali necessità degli stakeholder.
Articoli 21 novembre 2023
La ‘Casa delle imprese’ on tour: SACE ha aperto le porte delle sue sedi territoriali alle PMI