Articoli 20 novembre 2014

USCIRE DALLA TEMPESTA

Quanto costa e quanto si guadagna dalla nuova geografia dei rischi

Soffia il vento dell’instabilità, sempre più forte e sempre più imprevedibile. In anni in cui la parola “crisi” è diventata la chiave di lettura di un’epoca, in Italia le imprese si muovono alla ricerca di risposte nuove per guardare al futuro con fiducia e con prospettive di crescita migliori.

E molte di queste risposte spingono a guardare oltreconfine. “L’export è l’unica via per crescere, è l’unica forza del Sistema Paese. Bisogna andare verso i mercati emergenti”. Che provengano dal governo, da addetti ai lavori o da altri osservatori, queste sono le indicazioni che ricorrono sempre più frequentemente. Sono solo slogan?

Non propriamente. L’Italia non è un Paese con una particolare forza geopolitica: la nostra identità da sempre è legata alla capacità di far impresa, commerciare e creare prodotti – riprendendo un recente studio di Prometeia – “belli e ben fatti”, con un appeal unico a livello internazionale. Il nostro interesse, nelle relazioni internazionali, è dunque rivolto soprattutto all’import-export. Per questo conoscere la geografia economica è indispensabile: rischi non ben ponderati si potrebbero pagare cari.

 

La forte instabilità e volatilità dei mercati a livello globale stanno inevitabilmente avendo degli impatti importanti anche sulla posizione internazionale dell’economia italiana: riorientare i flussi commerciali e di investimento diventa dunque un obbligo.

In un recentissimo studio, SACE ha calcolato che l’instabilità politica ed economica in un certo numero di Paesi è costata all’Italia, nel triennio 2011-2013, ben 36,6 miliardi di euro di “mancate esportazioni”: 17,2 miliardi derivanti da crisi geopolitiche, 11,5 miliardi da crisi economiche e 7,9 miliardi dalla sola crisi russa.

 

Impatto delle crisi in diversi mercati sull'export italiano tra il 2011 e il 2013

 

Is the world falling apart?

La Mappa dei rischi di SACE illustra, per 196 Paesi, i profili di rischio a cui si espongono le imprese nell’operare all’estero: un’immagine globale che negli ultimi quattro anni è profondamente cambiata. Oggi prevalgono il giallo, l’arancione, il rosso – indicatori di cautela e pericolo – e in Europa diminuiscono le aree verdi che contrassegnavano i Paesi un tempo risk free.

 

Potenziale di recupero dell'export italiano tra il 2014 e il 2016

Spiccano Paesi con rischi rimasti costantemente elevati e altri in cui i rischi sono progressivamente peggiorati dal 2010 a oggi. Tra i primi, Bielorussia, Iraq, Pakistan e Venezuela sono accomunati da instabilità politica e leadership autoritaria, elevato interventismo economico dello Stato e bassa diversificazione del sistema produttivo. Anche in ArgentinaUcraina e Iran il merito di credito, già basso, si è ulteriormente deteriorato negli ultimi anni: se nel caso argentino i fattori di debolezza sono una politica economica inefficiente, il mantenimento di un tasso di cambio slegato dai fondamentali economici e un atteggiamento altalenante tra pragmatismo e populismo (che hanno condotto Buenos Aires a un nuovo default selettivo), l’Ucraina sta subendo le ripercussioni delle tensioni geopolitiche esplose a gennaio, con un’economia già in precedenza in affanno, mentre l’aggravamento dell’Iran è stato determinato dall’inasprimento del quadro sanzionatorio e la chiusura degli scambi commerciali del Paese con i partner occidentali.

 

Nel secondo gruppo troviamo Egitto, Libia Siria (alle prese con l’eredità della Primavera Araba), la Grecia (ancora impegnata nella faticosa ricostruzione economica dopo la crisi del debito pubblico scoppiata nel 2010) e infine la Russia, con prospettive oggi negative legate alle evoluzioni delle tensioni in Ucraina.

 

Eppure, non siamo di fronte a un quadro fatto di sole ombre. Crescita sostenuta e miglioramento dei profili di rischio hanno interessato invece un ampio gruppo di mercati emergenti, caratterizzati da meriti creditizi ormai stabilmente positivi (Brasile, Cina, India, MalesiaMessico, Polonia, Sudafrica, Perú) o medi, ma in progressivo miglioramento (Algeria, ColombiaFilippine, Indonesia, Kenya, MaroccoTurchia). SACE stima in 38,6 miliardi di euro il potenziale business che potrebbero offrire questi mercati all’export italiano nei prossimi due anni, qualora le imprese decidessero di riorientare in questa direzione le proprie attività.

 

Se si considera che l’80% di tale recupero potrebbe venire da una maggiore penetrazione in Paesi già presidiati stabilmente dalle imprese italiane (mentre solo il 20% si concentrerebbe su geografi e “nuove” o poco inesplorate), si comprende come lo sforzo sia alla nostra portata.

 

Tra i mercati in crescita già noti all’export italiano vi sono Algeria, Marocco e Turchia, dove l’Italia deve difendere e possibilmente rafforzare il proprio posizionamento (rispettivamente come terzo, sesto e quinto fornitore).

Tra i Paesi in cui espandere la presenza italiana vi sono invece Colombia, Filippine e Kenya, Paesi in forte espansione economica, con consumi e investimenti in crescita. In queste geografi e la presenza di altri Paesi europei – come Francia e Germania – è decisamente superiore a quella italiana, quindi gli spazi di miglioramento per il nostro Paese rimangono ampi.

 

La ricerca delle opportunità in questi mercati, specie quelli “nuovi”, richiede un approccio informato e adeguato a comprendere le dinamiche locali, sotto molteplici punti di vista. Gran parte delle imprese che vanno all’estero è di dimensione medio-piccola, e difficilmente queste imprese sono in grado di gestire in proprio i rischi dell’internazionalizzazione e di ottenere adeguato accesso alla finanza per il proprio sviluppo all’estero. Trovandosi invece supportate nel controllare e nel fronteggiare questi rischi, le imprese hanno la possibilità di concentrarsi sul business e sulla competitività della propria offerta tecnica/commerciale nei Paesi di destinazione. E attraverso l’accesso a strumenti finanziari per l’internazionalizzazione (trade finance, garanzie finanziarie) sarà possibile sfruttare la leva dell’export, l’unica vera via per una crescita concreta.

 

Rischio di credito - rating 2014 con variazioni rispetto al 2010 

 

Come cambiano i rischi politici

Osservando l’andamento del rischio politico (ovvero la media dei tre rischi: violenza politica, esproprio, trasferimento), apparentemente non sono state rilevate variazioni negli ultimi quattro anni: un risultato che deriva, in realtà, anche in questo caso, dalla sommatoria di performance molto eterogenee.

 

La violenza politica è aumentata del 17%, essenzialmente a causa dall’onda lunga della Primavera Araba e della conseguente instabilità politica in Medio Oriente e nel Sud-Est del Mediterraneo. L’aggravamento del rischio si è verificato infatti soprattutto in Libia (il cui punteggio è aumentato di 41 punti), Siria (+37), Tunisia (+25), Bahrein (+18) ed Egitto (+14). A questo, si sono sommate tensioni politiche in Paesi come Mali (+39), Argentina (+20), Venezuela (+15) e Thailandia (+12), la crisi tra Russia e Ucraina e il riacutizzarsi di fenomeni terroristici in Africa. Seppur su livelli ben più contenuti, anche in Europa sono aumentate le tensioni socio-economiche, in particolare nei Paesi che hanno subito un tracollo economico con le conseguenti misure di austerità, come nel caso di Grecia (+16), Cipro (+12) e Portogallo (+12).

 

Anche il rischio di esproprio è aumentato – sebbene in misura più limitata (+9%) – a causa sia dell’inevitabile inasprirsi del contesto mediorientale, sia dell’aggravarsi della situazione in America Latina. In quest’area, infatti, si è verificato un peggioramento in mercati come El Salvador (+8 punti), Guatemala e Honduras (+7 punti) oltre che in Argentina e Venezuela – dove i governi hanno una forte ingerenza nell’attività economica e in quattro anni si è avuto un aumento rispettivamente di 27 e 10 punti nel rischio di esproprio che ha portato i due Paesi alla soglia di 90 punti. 

 

Il rischio di trasferimento è invece migliorato di 11 punti a livello globale, grazie al minor livello di rischio registrato in Europa sia per i Paesi periferici dell’area euro, che hanno potuto beneficiare degli interventi promossi dalla Bce, sia per i mercati dell’Europa dell’Est, che sono stati in grado di rafforzare alcuni dei loro fondamentali economici.

 

 

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