Articoli 08 giugno 2015

SHOW ME ITALY

L’Italia torna a calcare le scene. Nell’occasione più importante degli ultimi anni per mettersi in vetrina, quella dell’Expo 2015, il nostro Paese si affida al suo fiore all’occhiello: il settore agroalimentare.

 

Con le parole d’ordine “Feed the Planet, Energy for Life”, nell’edizione milanese dell’Esposizione Universale mostreremo al mondo la qualità del modello alimentare italiano, unico per equilibrio nutrizionale, sostenibilità, legame con il territorio, gusto e sicurezza, e lo proporremo come nostro apporto all’obiettivo globale di nutrire il pianeta e valorizzare le risorse della Terra.

 

Ci sentiamo ben forti della fama dell’Italian food & drink nel mondo. Secondo le elaborazioni del Centro Studi Federalimentare, su circa 1,2 miliardi di persone che, in tutto il pianeta, ogni anno comprano un prodotto o una bevanda Made in Italy, ben 720 milioni non sono consumatori occasionali, ma fidelizzati.

 

È forse per questo che il settore dell’agroalimentare ha retto bene anche in tempo di crisi? Tra il 2007 e il 2014, questo comparto ha perso solo 3 punti percentuali di produzione, contro i 24 del manifatturiero nel suo complesso; ha incrementato l’export di 48 punti, contro i 9 dell’export totale; infine ha dimostrato una buona tenuta anche per quanto riguarda i livelli occupazionali. L’appeal internazionale delle nostre produzioni ha sicuramente giocato un ruolo importante, ma non è l’unico fattore della nostra resilienza.

 

L’agroalimentare ha retto anche perché è un comparto anticiclico. Le spese in alimenti e cibo sono le ultime a essere tagliate nei momenti difficili e sono le prime a ripartire, nel mercato interno, quando si inizia a risalire la china.

 

Oggi, mentre i consumi interni ripartono inaugurando un 2015 in timida ripresa, appare sempre più evidente che la migliore partita per le nostre produzioni agroalimentari deve ancora essere giocata: e si svolgerà oltreconfine.

 

Il settore conta 58 mila imprese, 385 mila addetti diretti e altri 850 mila sono impiegati nella produzione agricola. Le esportazioni italiane di prodotti agroalimentari hanno già raggiunto, nel 2013, circa 33 miliardi di euro: un valore di tutto rispetto, ma non corrispondente al potenziale del Paese né all’altezza della nostra reputazione. Da un confronto con i principali peer, europei e mondiali, emerge infatti che l’incidenza dell’export di agrifood, sul totale delle esportazioni di beni, è minore in Italia rispetto ad alcuni dei suoi più diretti competitor, come Spagna e Francia.

 

L’obiettivo condiviso, lanciato dal governo, è spingere l’export agroalimentare portandolo a 50 miliardi di euro entro la fine del decennio, con un conseguente aumento dell’occupazione di 100 mila unità.

 

Pasta  

Qui sopra e nelle grafiche a seguire i dati riferiti ai 10 prodotti agroalimentari top: confronto tra l’Italia e i suoi peer, 2013 – quote di mercato mondiali (in %) 

Fonte: elaborazioni SACE su dati Un Comtrade

 

La crescita media annua delle nostre esportazioni agroalimentari, tra il 2010 e il 2013, è stata del 6,4%, in accelerazione rispetto al 4,7% dei tre anni precedenti. Una bella performance, particolarmente positiva nei mercati emergenti extra-Ue (+15,1%), a evidenza dei buoni risultati che è possibile raggiungere nelle geografie a maggiore potenziale di sviluppo della domanda; le nostre esportazioni hanno invece seguito ritmi di crescita più lenti rispetto ai peer nei mercati emergenti e avanzati dell’area Ue, geograficamente vicini e commercialmente legati all’Italia, dove le nostre esportazioni sono cresciute rispettivamente del 6,7% e del 4,4% in media tra il 2010 e il 2013.

 

Una tendenza visibile anche nell’operatività di SACE, che negli ultimi anni ha registrato un incremento delle richieste di garanzia da parte di imprese della filiera agroalimentare sempre più dirette verso i mercati emergenti: pastifici noti come De Cecco, La Molisana, Rummo, ma anche Pasta Zara, Liguori e Ferrara, oppure i vini Zaccagnini, Barone di Ricasoli, Zonin, Carpenè Malvolti e Bisol, fino ad arrivare a produttori di macchinari come Fava, che con SACE ha esportato i suoi impianti per la produzione di pasta in Madagascar. In particolare, anche con la loro spiccata connotazione locale, le imprese campane dell’agroalimentare stanno mostrando un dinamismo sorprendente nei mercati stranieri più lontani se paragonate a quelle di altre Regioni d’Italia.

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Recentemente SACE ha sostenuto alcune di queste realtà d’eccellenza, offrendo gli strumenti giusti per intraprendere percorsi di crescita in Paesi prima sconosciuti. «La nostra mission è sempre stata quella di portare i prodotti italiani all’estero», spiega ad esempio Salvatore Pisani, export manager di Corex, azienda dell’Agro Nocerino specializzata in un’ampia gamma di produzioni agroalimentari, «ma negli anni è cambiato sia il paniere dei prodotti sia i mercati di sbocco». Corex ha adottato un modello di business molto particolare: acquista materie prime insieme a unità produttive per sviluppare un paniere diversificato di prodotti da esportare (dalla pasta ai sughi pronti, dall’olio d’oliva alle conserve). «Il nostro modello», spiega ancora Pisani, «è come quello di Eataly. La differenza è che non abbiamo una struttura fissa per la vendita e il consumo».

 

E la storia di Corex parte da lontano: «Abbiamo iniziato esportando il concentrato di pomodoro nei Paesi vicini del Mediterraneo e nel continente africano, ma oggi i nostri mercati principali sono oltreoceano: Cina, Giappone e Sud America. Non siamo legati a produzioni industriali rigide, ma siamo soggetti ai cambiamenti che avvengono nel mercato di destinazione. Negli anni Ottanta e Novanta l’Italia riusciva a esportare prodotti alimentari “basici”, come pasta, farina, semola… Con il tempo, molti Paesi si sono dotati di strutture proprie e quindi per sopravvivere abbiamo dovuto alzare il target dei prodotti esportati, applicando logiche di marketing più complesse per entrare in mercati con richieste più evolute. Per questo abbiamo deciso di acquistare le capacità produttive di piccole e medie imprese: così facendo permettiamo loro di saturare la loro capacità produttiva e di entrare in mercati esteri complessi, che altrimenti sarebbero fuori della loro portata».


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L’Italia ha una quota di mercato mondiale nell’agroalimentare del 3,1%, in linea con quella spagnola ma inferiore alle quote degli altri competitor (comprese tra il 4,6% della Cina e il 10,3% degli Stati Uniti). Prendiamo i dieci comparti di punta del nostro export agroalimentare, quali carni, cacao, preparazioni di ortaggi, legumi, frutta, formaggi e latticini, mele e pere fresche, caffè, olio d’oliva, salsicce e salumi, pasta e vini: insieme rappresentano il 57% delle esportazioni agrifood italiane. I loro risultati sono però molto eterogenei a seconda dei settori e comparti, con picchi per i vini (di cui deteniamo una quota pari al 19,3% del mercato globale), l’olio d’oliva (25%) e soprattutto la pasta (37,5%) dove il nostro Paese è indiscusso leader mondiale.

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Ma non tutti i palati sono attenti ai sapori e frequentemente il driver principale della domanda non è il gusto, bensì il prezzo. Quando la qualità non si discute ma si presenta come tratto distintivo, una delle armi migliori a disposizione delle imprese agroalimentari sta nel controllo di filiera.

 

Un caso del tutto particolare in quest’ambito è rappresentato dal pastificio De Matteis, che da cinque anni ha lanciato il progetto “Grano Armando”, uno dei pochi esempi nazionali di produzione della pasta a ciclo integrato, 100% italiano, realizzata utilizzando solo semola controllata, selezionata e trasformata “in casa”, vale a dire nel mulino di proprietà. «È una vera e propria rivoluzione», come spiega l’amministratore delegato Marco De Matteis. «Mettere in collegamento tutti i passaggi della filiera della pasta, dalla produzione e raccolta di materie prime alla trasformazione e realizzazione delle paste, è una sfida enorme. Il problema italiano è proprio la frammentazione esasperata delle aziende agricole e l’assenza di un sistema. Basti pensare che le dimensioni medie delle aziende produttrici di grano sono di 7-8 ettari. Inoltre il mercato del grano duro non è regolamentato, cosa che provoca forti oscillazioni dei prezzi e delle condizioni».


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Far parte del progetto significa sottoscrivere un contratto di filiera con un rigido disciplinare di coltivazione, in cui ci si impegna a usare sementi stabilite e a seguire precise regole nelle pratiche agronomiche. I risultati sono un grano italiano di prima qualità, proveniente da agricoltori che investono e rispettano la loro terra, guadagnandoci; sul prodotto conferito hanno il prezzo minimo garantito rispetto a quello fissato dalla Borsa del grano, il che li sottrae ai meccanismi speculativi che governano questo settore; hanno anche un incentivo di premialità (più alto è il contenuto proteico, maggiore è il prezzo riconosciuto, rispetto al prezzo di mercato).

 

Le aziende agricole che finora hanno sottoscritto il contratto sono 950, provenienti da diciotto Province e nove Regioni, per oltre 11.400 ettari di terreno. Partner nel progetto sono Syngenta, una multinazionale svizzera che opera in agricoltura, e Coseme, azienda sementiera di Foggia. «Per il futuro, un primo obiettivo è lanciare un progetto di filiera anche in Sicilia», conclude De Matteis. «Una seconda sfida è portare Grano Armando nei mercati esteri. La difficoltà dell’esportazione della pasta, però, risiede nel fatto che è un prodotto povero, mentre i prezzi della distribuzione sono alti. Inoltre non bisogna dimenticare che la concorrenza nel settore della pasta si gioca quasi esclusivamente sulla leva prezzo».

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Sulla stessa linea anche Antonio Petti, presidente del famoso marchio di concentrato di pomodoro: «Il valore Made in Italy ha un suo peso. In Giappone e negli Usa, ad esempio, il pomodoro è abbinato al consumo di pasta e la richiesta è per prodotti di nicchia come il pelato o il cubettato». Nel settore della produzione di sugo di pomodoro, il fattore prezzo conta più di ogni altro. Secondo Petti: «Oggi si compra solo in offerta. Il tema non è dunque la diminuzione dei consumi, ma la diminuzione dei prezzi».

 

Se la nostra leadership nella pasta appare ormai consolidata, negli altri settori alimentari Made in Italy avvertiamo ancora la concorrenza di altri Paesi, senz’altro meno noti nell’arena internazionale per la qualità dei loro prodotti alimentari. La Germania ha quote più alte di noi nei comparti dei formaggi e latticini, salumi insaccati e caffè, Stati Uniti e Cina nell’industria conserviera e nella frutta fresca, mentre la competizione con la Francia sul vino e con la Spagna sull’olio è storia nota dell’ultimo decennio.

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Per quanto riguarda il comparto delle carni e dei formaggi, la provenienza controllata delle produzioni è un asset forte: garanzia del successo nel territorio di riferimento… ma come portarla al di fuori di esso?

 

Un caso abbastanza unico è quello rappresentato dalla A.R.A, l’Associazione Regionale degli Allevatori, della Basilicata che si è rivolta al gruppo SACE per lo smobilizzo dei crediti vantati nei confronti della Regione, ottenendo così la liquidità necessaria a sostenere i molti piccoli produttori locali riuniti sotto la sua egida. Una realtà pubblica che ha il vantaggio di affondare le proprie radici nel territorio, garantendo prodotti genuini e della tradizione lucana che confluiscono in quel plus rappresentato dal marchio Made in Italy.

«L’A.R.A. è sin dagli anni Cinquanta impegnata quotidianamente al servizio del sistema zootecnico lucano», afferma Palmiro Ferramosca, presidente dell’Associazione. «Sono ormai una significativa realtà le filiere relative alla Podolica, all’Agnello delle Dolomiti e al Suino nero. Tre prodotti che costituiscono un’eccellenza dell’agroalimentare lucano con una valenza che va ben oltre l’aspetto produttivo ed economico, poiché rappresentano un riferimento per la nostra cultura e le nostre tradizioni. Il comparto, inoltre, sta attraversando un profondo processo di innovazione, dimostrando buone capacità di adeguamento all’attuale difficile contesto che esige scelte coraggiose, proiettate in una dimensione sempre più competitiva».

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Anche la struttura distributiva, però, conta. Eccome. Molto spesso le strutture di vendita mancano e le imprese sono troppo piccole per sostenere lo sviluppo internazionale. Secondo Pisani di Corex: «Il modello della Grande Distribuzione Organizzata (Gdo) italiano-europeo è diverso da quello statunitense o asiatico. Negli Stati Uniti la Gdo è la parte terminale di un processo che nasce molto prima. È concepita come una sorta di “fitto dello scaffale” che premia di più la qualità del prodotto. In Italia, invece, nei  supermercati un primo screening viene fatto in base al prezzo del prodotto e questo ci penalizza». Come riscattarci, allora?

 

Il momento attuale appare finalmente propizio per il nostro Paese: ripresa economica delle nazioni a elevata domanda di Made in Italy, segnali di fiducia dal mondo imprenditoriale nazionale, nuova liquidità per effetto del prossimo Quantitative Easing, deprezzamento dell’euro verso dollaro e franco svizzero, Expo 2015 come vetrina dell’Italia e del mondo. È il momento dunque di rimettersi in gioco davvero.


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Export 50 miliardi: un traguardo possibile per l’agroalimentare italiano

 

Colmare il gap richiede la capacità di orientare lo sforzo verso pochi settori significativi, in grado di coniugare qualità italiana con economie di scala e standard internazionali. Come? Per esempio scommettendo sui nostri punti di forza. Se ci concentrassimo, in particolare, sui dieci settori e comparti più competitivi dell’export agroalimentare, intensificando la penetrazione sulle geografie più promettenti per ciascuna categoria merceologica (import in forte crescita), entro il 2018 sarebbe possibile incrementare l’attuale export agroalimentare italiano di oltre 7 miliardi di euro.

 

La prospettiva è frutto di una proiezione dell’Ufficio Studi di SACE. Il calcolo dell’export potenziale aggiuntivo viene fatto ipotizzando che le esportazioni italiane, di ciascun prodotto agroalimentare in ciascuno dei Paesi considerati, crescano, entro il 2018, allo stesso ritmo che hanno registrato in media nel triennio 2011-2013; tuttavia, dove la dinamica di crescita risulti più sostenuta dal lato dell’import dei prodotti agroalimentari nei Paesi considerati, si ipotizza che l’export italiano cresca allo stesso ritmo che questo import ha registrato in media nel periodo 2011-2013.

 

In Europa, in cui vigono regole e normative comuni e armonizzate, sarebbe possibile conseguire 4,8 miliardi di euro di maggior export, mentre nei Paesi oltre Atlantico 1,4 miliardi. Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Francia possono contribuire da soli per circa 5 miliardi di euro di export aggiuntivo.

 

Le opportunità, con le dovute proporzioni, riguardano però anche alcuni mercati emergenti i cui consumatori stanno orientando i propri gusti sempre più verso la qualità delle produzioni italiane. Tra questi Paesi: Cina, Hong Kong, Corea del Sud, Brasile, Polonia ed Egitto. Un discorso a parte bisogna fare invece per la Russia, mercato in alcuni casi molto rilevante per il nostro export agroalimentare, che sta subendo gli effetti negativi delle sanzioni sull’economia russa e del bando all’import di alcuni prodotti del settore. Dalle stime si evince chiaramente come il guadagno potenziale per il nostro export in Russia sarebbe elevato in assenza di tali vincoli.

 

I comparti a maggior potenziale, tra i dieci selezionati, sono il vino, l’industria conserviera e l’olio d’oliva, che rappresentano oltre il 50% del maggior export potenziale (3,9 miliardi). Non a caso si tratta di beni che possono ben coniugare la qualità italiana con processi di produzione industriali in grado di far fronte alla crescente domanda internazionale.

 

Vi sono anche casi di grande successo come Illycaffè – già presente in centocinquanta Paesi al mondo – che, nei mercati emergenti ha trovato i migliori canali di distribuzione nel mondo delle forniture alberghiere e della ristorazione.

 

Considerando che l’export agroalimentare italiano è stato di circa 33 miliardi di euro nel 2013, si potrebbe arrivare quindi a oltre 40 miliardi, raggiungibili andando a calibrare le azioni direttamente sui mercati di opportunità e a livello di singoli comparti.

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La ricerca delle opportunità nelle destinazioni fin qui evidenziate richiede uno sforzo strategico importante. In mercati maturi come Stati Uniti, Germania, Regno Unito e Francia, le imprese agroalimentari dovranno porre l’accento sul rafforzamento della competitività, che, oltre alla qualità dei prodotti offerti, passa attraverso la scelta di canali distributivi adeguati, l’adozione di strumenti di marketing e la valorizzazione di brand efficaci, senza dimenticare la capacità di offrire ai propri clienti modalità e dilazioni di pagamento finanziariamente vantaggiose.

 

Nei mercati meno conosciuti, a questo va sommato uno sforzo ulteriore di comprensione delle dinamiche locali sotto molteplici punti di vista. I tratti distintivi dei prodotti alimentari Made in Italy rappresentano infatti un importante valore aggiunto, ma anche un limite, se non veicolati in modo funzionale al contesto e alle sue peculiarità: un sapore capace di conquistare un palato francese non è detto che riscuota lo stesso successo in Cina o in Corea, per esempio.

 

I servizi di Advisory sviluppati da SACE aiutano anche a valutare a pieno la coerenza dell’approccio ai singoli mercati e i diversi profili di rischio così da proporre strutture finanziarie assicurative efficaci a supporto delle singole transazioni commerciali e di investimento. 

 

Gran parte delle imprese dei comparti agroalimentari esaminati è di dimensioni medio-piccole e difficilmente riescono a gestire in proprio i rischi dell’internazionalizzazione e a ottenere adeguato accesso alla finanza per lo sviluppo all’estero. Scegliere un partner giusto, come SACE, per controllare e fronteggiare tutti i rischi connessi all’internazionalizzazione – dal mancato pagamento a eventi di natura politica – consente all’impresa, specie se non molto strutturata, di concentrarsi sul business e sulla competitività della sua offerta commerciale nei Paesi di destinazione. Non accorcia le distanze, ma aiuta a colmarle, concretamente.

 

 

 

Foto: produzione Grana e Parmigiano - Massimo di Nonno

Infografica: Studio Mjölk


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