Articoli 15 ottobre 2014

SE LA MONTAGNA NON VA A MAOMETTO...

I rapporti economici che ci legano al Medio Oriente sono una realtà, oltre che un’opportunità su cui investire

 

Il Medio Oriente in fiamme non scoraggia gli investitori. Secondo la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale, quelli mediorientali sono mercati in crescita. Fanno business con l’Occidente, e pure tra di loro. Gli investimenti in infrastrutture ci sono e stanno cambiando la geografia economica della regione, ma i processi di razionalizzazione restano inefficienti e le capacità professionali lasciano a desiderare. E qui le imprese italiane si possono inserire. Prestando attenzione alle regole del gioco, dettagliate da Jeremy Williams in Don’t they know it’s Friday? Cross- cultural considerations for business and life in the Gulf (“Motivate Publishing”).

 

L’Isis ha reso più pericolosa, per investimenti e movimenti degli imprenditori, un’area già turbolenta. Investire si può ma con cautela, anche sulla base del coinvolgimento dei diversi Paesi nella coalizione guidata dagli americani contro i jihadisti, perché quelli in prima linea rischiano di essere presi di mira e sono a rischio di destabilizzazione politica ed economica.

 

Per questo sarebbe meglio stare alla larga dall’Arabia Saudita, che dal 2011 (con le Primavere arabe) ha investito cifre record in strade, aeroporti e città industriali per attrarre nuovi investitori, dare spazio al settore privato, creare opportunità di impiego e tenere lontane le proteste. Secondo l’Unctad (United Nations Conference on Trade and Development, l’agenzia dell’Onu che si occupa di commercio e sviluppo) gli investimenti stranieri diretti in Arabia Saudita sono però diminuiti, tra il 2008 e il 2012, di oltre due terzi per arrestarsi a 12,2 miliardi di dollari. È l’economia più ricca del Golfo, le tasse sono basse, la crescita economica è poco sotto il 4%, l’energia costa poco e la popolazione raggiunge i trenta milioni di abitanti. Ma la manodopera locale è meno efficiente di quella straniera, e ottenere un visto non è facile.

 

Cautela anche negli Emirati, dove per trentatré anni lo sceicco Zayed Bin-Sultan Al Nahyan – capo di Stato degli Emirati dalla loro fondazione nel 1971 alla sua morte nel 2004 – si era dichiarato neutrale e cercava di andare d’accordo con tutti. Ora, il figlio, lo sceicco Khalifa (succeduto al padre alla sua morte) si schiera con gli Stati Uniti e con l’Arabia Saudita, impegnando l’aviazione nei bombardamenti contro l’Isis e dando ampia risonanza alla 35enne Mariam al-Mansouri al comando di una squadriglia di aerei che partecipa ai raid contro i jihadisti in Siria. Il casco da pilota sul velo islamico, Mariam è stata minacciata via Twitter ed è ovvio che un possibile obiettivo dei jihadisti potrebbe essere proprio la sua patria.

 

Più ambigua la posizione del Qatar, schierato talvolta con gli uni, e in altre occasioni con gli altri. Piccolo Paese con un reddito medio pro capite di 80 mila dollari l’anno, grazie all’aumento del prezzo dell’energia, il Qatar sta investendo oltre 200 miliardi di dollari in infrastrutture in vista del campionato mondiale di calcio del 2022. Quando lo sfruttamento della manodopera straniera ha scatenato le organizzazioni in difesa dei diritti umani, l’emiro è corso ai ripari con una legislazione ad hoc.

 

Tra i Paesi arabi non schierati apertamente con la coalizione che si contrappone ai jihadisti vi sono soltanto il Kuwait (seppur con una certa ambiguità) e l’Oman, i cui porti sono situati al di fuori dello stretto di Hormuz e quindi in una posizione più accessibile per le navi provenienti dall’Asia. Mediatore in diverse trattative che hanno avvicinato Teheran e Washington, il Sultano dell'Oman Qabus ha avviato un processo di modernizzazione e fa le cose in grande, senza fretta per non mettere sottosopra il modus vivendi dei suoi tre milioni di abitanti. La percezione è che sia un piccolo Paese ma, a ben vedere, gli Emirati sono di dimensioni inferiori.

 

Tra i Paesi non arabi, la Turchia si è finalmente schierata contro l’Isis, dopo mille riserve e per ora solo a parole. Nonostante la svolta islamista del suo governo, resta attraente per delocalizzare e per i suoi settantacinque milioni di potenziali consumatori.

 

Non coinvolta nella coalizione guidata da Washington, ma comunque attiva contro i jihadisti sunniti dell’Isis, è poi la Repubblica islamica dell’Iran. Con i suoi ottanta milioni di abitanti (consumatori agguerriti di prodotti occidentali), rimane apparentemente, in questa situazione caotica, il Paese più sicuro per gli investimenti e i movimenti degli imprenditori. Ma siamo sempre in attesa di un accordo finale sul controverso programma nucleare di Teheran, previsto per il 24 novembre di quest’anno.

 

Detto questo, investendo in Medio Oriente non si deve sottovalutare la corruzione, uno dei fattori scatenanti delle primavere arabe e, secondo l’organizzazione internazionale The One Campaign, una delle cause della povertà a livello globale, con un impatto maggiore rispetto ai disastri naturali e alle malattie; infatti la piaga della corruzione riduce la crescita economica, aumenta il costo del business e rende instabile la politica. Nei Paesi in via di sviluppo, poi, ostacola gli investimenti nella sanità e nell’istruzione, e a farne le spese sono i bambini (ma non solo). La corruzione è un problema anche nei Paesi industrializzati: le mazzette, dove servono ad aggiudicarsi un appalto, nel medio/lungo periodo non aiutano l’impresa italiana.

 

Infine, per garantire continuità, gli investimenti dovranno essere accompagnati da una diplomazia decisa a tutelare gli interessi delle imprese italiane. Qualche anno fa a Teheran gli imprenditori lamentavano la mancata visita del premier Prodi e successivamente di Silvio Berlusconi. I francesi erano riusciti a firmare qualche contratto in più, grazie a una delegazione venuta da Parigi. Con Prodi non ho mai avuto il piacere di scambiare due chiacchiere. A Berlusconi riferii, in occasione di una riunione della Consulta sull’Islam, le richieste degli imprenditori italiani. Lui rispose che a chiedergli di non andare a Teheran era stato un caro amico, George W. Bush (1).

 

In conclusione, due cose sono certe.

La prima: in Medio Oriente i cinesi ci sono, nonostante le violazioni dei diritti umani e le perplessità dell’Occidente, libero e democratico, investono e mantengono una presenza significativa. E sono presenti anche nel settore bancario: a maggio la più grande banca cinese, la Industrial and Commercial Bank of China, ha aperto una sede in Kuwait perché la regione promette un ritorno certo. E poi sono in Iran, ma anche negli Emirati, dove i cinesi sono 250 mila, impegnati in settori diversi, come si legge sul report China and the Persian Gulf del “Wilson Center”.

La seconda cosa certa: tra il 2007 e il 2013 gli investitori mediorientali hanno speso 45 miliardi di dollari in immobili a Londra, Parigi e Milano. Nel prossimo decennio a farla da padrone saranno i fondi sovrani del Medio Oriente: investiranno 180 miliardi di dollari in immobili commerciali. Di questi, 145 miliardi arriveranno in Europa (85 miliardi nel Regno Unito e il resto in Francia, Germania, Italia e Spagna). Se le imprese italiane non vanno in Medio Oriente saranno comunque i mercanti mediorientali a venire in Italia per fare affari.

 

 


Farian Sabahi

Scrittrice, giornalista e docente universitaria, Farian Sabahi si è laureata in Economia alla Bocconi di Milano e in Storia Orientale all’Università di Bologna, per conseguire poi il dottorato in Storia dell’Iran alla Soas (School of Oriental and African Studies) di Londra. È stata professore a contratto all’Università di Torino e all’Università di Ginevra. 

Giornalista professionista, dal 1994 scrive di questioni islamiche per il “Sole 24 Ore” ed è editorialista del “Corriere della Sera”. Nel 2010 è stata insignita del Premio Amalfi, sezione Mediterraneo, e nel 2011 ha ricevuto il Premio Torino Libera, intitolato a Valdo Fusi. È autrice di vari volumi tra cui Noi donne di Teheran (Jouvence), Il mio esilio. Shirin Ebadi con Farian Sabahi (Feltrinelli), Un’estate a Teheran (Laterza), Storia dell’Iran 1890-2008 (Bruno Mondadori) e Storia dello Yemen (Bruno Mondadori).

 

Email: [email protected]  -  Twitter: @FarianSabahi

 


Letture consigliate:

The Economic And Political Aftermath Of The Arab Spring. Perspectives from Middle East and North African Countries - C. Altomonte, M. Ferrara (ed. Edward Elgar)



1 - Cfr. L. Bagnoli, R. Nava, Come fare affari in Iran, prefazione di F. Sabahi (ed. Diacron)

Immagine di copertina: Centro commerciale a Dubai, Emirati Arabi Uniti. Foto di Bruno Morandi

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