Articoli 20 novembre 2014

NUOVI MERCATI

Realtà inesplorate si aprono al mondo e nuovi volti si affacciano dal continente che corre più veloce di tutti

 

L'Asia continua a correre, e lo fa nonostante il rallentamento del Dragone rosso cinese e delle sue economie emergenti. Il continente, che oggi ospita il 60% della popolazione mondiale, entro il 2050 rappresenterà da solo il 50% del prodotto interno lordo e degli asset finanziari di tutto il mondo, secondo le stime della Asian Development Bank.

 

“Che questo sia il secolo dell’Asia è un’evidenza ormai scontata. Ma nessuno sa ancora se questo sarà un bene o un male per l’Asia stessa”. Non è infondata la provocazione che giunge dai think-tanker del Fung Global Institute di Hong Kong. Con tassi di crescita record messi a segno negli ultimi anni e livelli di sviluppo economico, sociale e industriale senza precedenti, l’Asia è oggi un continente troppo grande per non porsi interrogativi di lungo periodo sul proprio destino. Ed è troppo diversificata e complessa per essere in grado di prestabilire, fin d’ora, quale forma assumerà il suo protagonismo a livello globale nel futuro che l’attende.

 

A sette anni dall’inizio della crisi, mentre l’economia globale continua a essere fragile, pur vedendo una timida luce alla fine del tunnel, si è aggirato per il mondo lo spettro di un possibile “hard landing” cinese, un rallentamento del tasso di crescita di Pechino, che potrebbe generare il secondo epicentro del terremoto crisi. Insomma, sono stati molti gli analisti a chiedersi se si stesse per prefigurare un déjà vu in salsa orientale: il rallentamento della Cina e delle Tigri asiatiche può tradursi in una sorta di Asia vu della crisi del 1997?

 

Una paura che appare infondata, perché, nonostante ci siano segnali che fanno temere una nuova crisi, le economie asiatiche emergenti continuano a registrare tassi di crescita nettamente superiori rispetto a quelli dei Paesi industrializzati, e il rallentamento della crescita cinese non rappresenta una battuta d’arresto né per Pechino né per i Paesi dell’intera area asiatica.

 

Mentre le tensioni di Hong Kong pongono nuove e inedite sfide all’interno di un continente in profonda evoluzione, le aspettative di crescita dell’economia cinese e di quella indiana sono state, negli ultimi due anni, gradualmente riviste al ribasso. Ma Pechino, che in termini di Pil per ora è seconda dopo gli Stati Uniti – sebbene si preveda il sorpasso alla fine del 2014 – si impone saldamente alla testa della classifica dell’economia mondiale sia per la produzione manifatturiera (il 30,3% dei prodotti globali è made in China) che per l’export ed è riuscita a evitare il tanto temuto hard landing, mentre la sua classe politica sembra anche avere accettato tassi di crescita inferiori e più sostenibili rispetto al passato.

 

Secondo il Fondo Monetario Internazionale nel 2014 il Pil cinese dovrebbe crescere del 7,3%. Per decenni l’Impero Celeste ha applicato una formula semplice per sostenere la crescita a pieno ritmo: ampia manodopera a basso costo e incremento degli investimenti con un balzo rispetto al Pil dal 35 al 50%. La Cina ha investito in infrastrutture e servizi e adesso tutti questi driver sembrano aver raggiunto una fase di maturità. Insomma, gli operai a basso costo si stanno esaurendo e le fabbriche hanno quasi raggiunto la piena occupazione.

 

Mettere a segno tassi di crescita importanti è relativamente più semplice quando si parte da livelli più bassi. Così spiega il ridimensionamento cinese l’ultimo Working Paper di SACE (L’Asia attraverso le crisi, di A. Pierri, 2013): “Più un Paese è sviluppato, più è difficile la crescita. Ed è possibile che un Paese sia divenuto troppo ricco per crescere velocemente. Questo rappresenta esattamente la situazione della Cina di oggi”.

 

Tutt’altra storia hanno da raccontare le nuove realtà emergenti del continente asiatico. Volti nuovi, relativamente poco noti – in certi casi dei veri e proprio outsider – che si impongono oggi agli sguardi attenti degli operatori internazionali, con un patrimonio di diversità e un potenziale tutto da scoprire. Filippine, BangladeshSri Lanka, Mongolia e Myanmar: sono cinque i Paesi asiatici che SACE identifica come “mercati di frontiera”. Tuttora piuttosto rischiosi, ma immuni, nella maggior parte dei casi, alla spietata concorrenza internazionale, possono offrire interessanti opportunità per fare impresa e, se si riesce a penetrarne la complessità, danno la possibilità di beneficiare di larghi margini.

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