Articoli 08 luglio 2016

MECCANICA ITALIANA: MOLTE OPPORTUNITÀ, QUALCHE RISCHIO

Gli investimenti esteri delle imprese italiane nei Paesi emergenti – e in particolare in Cina – hanno a lungo alimentato la retorica della delocalizzazione e della progressiva perdita di capacità industriale dell’Italia. Questo sentimento ha riguardato anche il settore della meccanica strumentale, fiore all’occhiello del Made in Italy, perché si è temuto il venir meno dell’osmosi tra costruttore di macchine per produrre e produttore del bene finale. 

 

Col tempo è però emersa la convinzione che l’internazionalizzazione attiva, non limitata all’export, è non solo fondamentale per concorrere sui mercati globali, ma spesso indispensabile per garantire la continuità aziendale e salvaguardare l’occupazione in Italia. Sono troppe le imprese che hanno fatto questa scelta per menzionarne alcune individualmente, è più semplice sintetizzare in cosa consiste, per le medie imprese italiane, esportare la propria visione in mondi nuovi e lontani.

 

Intanto bisogna portare in giro per il mondo l’alta qualità che da sempre le contraddistingue a livello internazionale e fornire alla clientela un prodotto manifatturiero dalle elevate performance e questo con l’obiettivo di consolidare la propria posizione nel panorama mondiale e mantenere il vantaggio rispetto ai concorrenti, in primis proprio quelli cinesi.

La seconda strada maestra è creare nuovi posti di lavoro nell’osservanza della cultura italiana d’impresa, che riconosce quali principi fondamentali il rispetto per la qualità del lavoro e dell’ambiente, condizione propedeutica all’innovazione del prodotto e dei processi.

Infine, le imprese hanno replicato in parte il modello distrettuale, trasferendo all’estero l’aggregazione territoriale in funzione della specializzazione produttiva. Questo è quanto avvenuto, per esempio, a Wujang (Suzhou, provincia dello Jiangsu), dove si trovano tra l’altro “multinazionali tascabili” nel taglio laser e nel macchinario per il packaging.

 

Negli ultimi tempi è però sorto un altro timore. Che i capitali cinesi (e non solo) stiano rapidamente comprandosi il meglio del Made in Italy, dai marchi del lusso ai produttori specializzati della meccanica, dai (pochi) grandi gruppi alla moltitudine d’imprese familiari, vanto del Quarto Capitalismo tricolore.

 

La Grande Crisi, la cui fine è forse finalmente arrivata anche in Italia dove si è dimostrata essere sicuramente più lunga e severa che altrove, lascia veramente la nostra industria alla mercé di scaltri investitori e manager che vengono da così lontano e così poco conoscono della nostra storia millenaria? Non è che dietro nomi come Fosun, Hony, Haier, Cic o ChemChina si celino interessi del Governo e più in generale della politica cinese? Oppure, al contrario, per i capitali cinesi andrebbero srotolati tappeti rossi, in un Paese che fatica a essere attrattivo per le multinazionali e in un momento in cui le imprese italiane rischiano di perdere terreno di fronte alla rapidità di cambiamenti tecno-organizzativi profondi che, come la manifattura additiva, l’Internet of Things o Big Data, richiedono disponibilità finanziarie che invece i cinesi hanno?

 

Sono tutte domande legittime e la risposta è che in medio, di solito, stat non solo virtus ma anche veritas. La Cina sta invecchiando rapidamente, si va esaurendo il bacino di contadini ansiosi di migrare verso le zone costiere e il costo del lavoro aumenta: per la crescita è necessario incrementare il peso dei consumi interni e dei servizi. Pechino è ben consapevole che per lo sviluppo futuro è necessario contare su national champions che competano sulla base del marchio, della tecnologia, della rete di distribuzione e magari, un giorno, anche di uno stile proprio di management. Inoltre, accumulare tante competenze richiede crescita per linee esterne, per cui è opportuno mettere in campo risorse pubbliche all’altezza delle ambizioni. E qui si dà credito a chi sospetta che China Inc. giochi una partita poco trasparente, in cui politica ed economia si confondono.

 

Però una crescita più vigorosa in Europa, e in Italia, richiede investimenti produttivi, condizione indispensabile per combattere disoccupazione, povertà e precarietà. Ben vengano allora gli investimenti cinesi, realizzati sempre più spesso da imprese private che, come altrove nel mondo, si stanno organizzando per affrontare le sfide della globalizzazione. Di esempi positivi ce ne sono del resto vari anche in Italia. Fa scuola l’esperienza di Zoomlion che, con l’acquisizione di Cifa, ha permesso all’azienda italiana di diventare junior partner del gruppo numero uno al mondo nei macchinari per l’edilizia.

 

In ogni caso è fondamentale che questa manifestazione della globalizzazione si accompagni a sforzi per guadagnarsi un “diritto a operare” che non è automatico ma passa attraverso comportamenti giuridicamente ed eticamente giusti, qualche volta anche virtuosi, che vanno al di là del dettato della legge. È una lezione che le imprese italiane hanno appreso e grazie alla quale riescono ad avere successo in Cina e in altri mercati emergenti, ed è lecito aspettarsi lo stesso dalle multinazionali cinesi.

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