Articoli 01 aprile 2016

JORGE PAULO LEMANN

Nel business, una domanda classica riguarda la formazione: contano più gli studi o JorgePauloLemannl’esperienza pratica? Nessuna delle due, secondo Jorge Paulo Lemann: conta il surf. La risposta soffia nel vento. Quello che, a Copacabana, sollevò un’onda gigantesca, pronta a travolgerlo. Abituato a onde di tre metri al massimo, durante una tempesta si trovò di fronte a un muro d’acqua di dieci metri. Il ventenne Lemann si lanciò. E ne uscì vivo. «Avevo l’adrenalina al massimo», ha raccontato cinque anni fa a un pubblico di studenti brasiliani; nei momenti più difficili della sua carriera di investitore, ha proseguito, «ho ripensato a quell’onda più che a tutto ciò che ho mai imparato a Harvard. Quell’esperienza mi ha dato una certa fiducia in me stesso, quando si tratta di affrontare rischi».

 

 

Oggi, a 77 anni, Lemann è l’uomo più ricco del Brasile (e nella Top 30 mondiale secondo “Forbes”). Ed è l’uomo che – tra molti altri settori in cui opera – sta trasformando quello della birra, con il gigante nato dalla fusione di AB Inbev e SABMiller.

 

 

È abituato a primeggiare, ma non solo nel business. Più volte campione nazionale brasiliano di tennis, ha giocato a Wimbledon, al Roland Garros e due volte in Coppa Davis: prima per il Brasile, poi per la Svizzera (ha entrambi i passaporti). Non è stata una vita sempre facile. Lemann ha perso il padre a 14 anni. A 54 è sopravvissuto a un infarto. Nel 1999, il tentativo di rapimento a mano armata dei tre figli piccoli lo ha spinto a trasferirsi in Svizzera, che suo padre aveva lasciato negli anni Venti del Novecento. Anche negli affari non tutto gli è sempre andato liscio. Ai suoi esordi nella Serie A della finanza, nel 1971, pochi mesi dopo che Lemann aveva fondato la banca d’investimenti Banco Garantia, il crollo del mercato che mise in ginocchio il Paese stava per spazzare via anche la sua giovanissima creatura. Eppure nel 1998, dopo una crescita continua, la “Goldman Sachs brasiliana” di Lemann era diventata tanto appetibile da far sì che Credit Suisse First Boston la rilevasse per 675 milioni di dollari (nonostante la grave difficoltà causata da un’altra crisi, quella che in quell’anno colpì Asia e Russia). Con i partner di allora, Carlos Alberto Sicupira e Marcel Hermann Telles – più giovani di lui di una decina d’anni – Lemann ha proseguito un cammino formidabile. La loro 3G Capital Partners (la sigla si riferisce a “i tre di Garantia”) è uno dei grandi motori della globalizzazione, promotrice di episodi chiave nell’ambito di un processo di consolidamento che ha interessato più mercati.

 

 

Nel 2010, 3G ha conquistato Burger King con un’operazione di leveraged buyout. Nel 2013, con l’investitore americano Warren Buffett (amico ed estimatore di Lemann da molti anni), ha comprato il colosso Heinz, nella più grande acquisizione nella storia del settore alimentare, fondendolo poi con Kraft Foods: ne è nata Kraft Heinz, quinto gruppo mondiale del food & beverage, con tredici marche da 500 milioni di dollari o più in portafoglio. Niente rispetto a ciò che Lemann ha fatto nel mercato della birra, avviandolo verso un virtuale monopolio. 3G ha bruciato le tappe di un percorso di acquisizioni serrato, forse il più aggressivo mai visto dai mercati internazionali. Il birrificio brasiliano Brahma, rilevato nel 1989, è stato la prima casella; con un’altra società brasiliana, Brahma ha formato AmBev, poi fusa con Interbrew, Gruppo belga le cui origini birrarie risalgono al 1366; è seguita la scalata dell’americana Anheuser- Busch; infine la recentissima fusione con SABMiller.  Lo stile di Lemann è distintivo, riconoscibile. Da sempre studia con attenzione le pratiche vincenti degli innovatori, per poi trapiantarle nel contesto in cui opera – che si tratti di finanza o di gestione aziendale. Garantia aveva portato in America Latina nuove tecniche di finanziamento delle operazioni, rivoluzionando il mercato locale con soluzioni che anche negli Stati Uniti si stavano appena affermando. Fu particolarmente importante ciò che, durante un’esperienza newyorkese in Bankers Trust, Lemann apprese sui derivati, a quel tempo ancora ignoti ai più.

 

 

Jorge Paulo Lemann ha sempre avuto una vocazione da “early adopter", pronto a imparare, raccogliere e mescolare influenze da sperimentare senza paura. Con un parallelo suggestivo e centrato, il “Financial Times” lo ha accostato agli artisti del Tropicalismo come Os Mutantes, Gilberto Gil e Caetano Veloso, che a fine anni Sessanta combinarono linguaggi locali e stranieri – dal rock alla bossa nova, al bolero – in un mix eterogeneo ed entusiasmante, liberando la musica brasiliana dai vincoli della tradizione (Lemann è più prosaico, e modesto: «Siamo degli scopiazzatori», ha detto a “Fortune”). Un altro tratto caratteristico di Lemann è l’approccio quasi ascetico che lo accomuna ai suoi due compagni di 3G: la ricchezza non è mai un fine, tanto meno va sfoggiata. 3G non usa jet aziendali; dagli uffici di tutti – fondatori compresi – è bandito il lusso; e i manager delle aziende controllate volano abitualmente in classe economica. Al centro c’è la dedizione al successo e al lavoro: quasi ossessiva. La società è sempre "alla ricerca di fanatici", per assumerli, hanno spiegato i fondatori a Jim Collins, autore della prefazione di Sonho grande di Cristiane Correa, la storia della 3G. Lemann etichetta i suoi candidati ideali con la sigla “Psd”, dice: «Poor, Smart, Deep desire to get rich».

 

 

Nella sua società d’investimenti come nelle controllate, la meritocrazia è il principio guida: nessun “alto papavero" può godersi la posizione senza faticare, ma chi è competente fa carriera rapidamente. E regole molto rigide impediscono ogni nepotismo. Tutto bene, dunque? No. I detrattori indicano senza difficoltà i lati oscuri di questa storia di trionfi. Nella gestione delle società acquisite, Lemann fa seguire ai suoi manager una linea precisa e immutabile: riduzione implacabile, quasi meccanica, dei costi e assimizzazione dei profitti. Sul fronte interno, chi lavora in 3G subisce una pressione fortissima per i risultati. Sul mercato la dipendenza esclusiva dalle economie di scala e da un taglio sistematico dei costi spinge molti settori del largo consumo a proporre prodotti sempre più uniformi, privi di personalità, plasmando in negativo il gusto dei consumatori. Nel campo della birra, sono note le critiche degli intenditori riguardo alle marche americane, dal sapore blando e indistinto: un processo di involuzione oggi globale che l’accentramento estremo del mercato, per mano di Lemann, può solo accelerare.

 

 

Per le aziende italiane che vogliano trarre stimolo da questa storia di successo, c’è molto da imparare da una vicenda personale di dedizione, apertura mentale impegno all’apprendimento continuo, visione internazionale. Un po’ meno probabilmente, dal modello di business e strategia, che più che innovare estremizza semplicemente un formato che esiste dagli anni Cinquanta (e forse per molti versi è già avviato al tramonto). Per il food & beverage italiano – ma anche per molti altri nostri settori trainanti – la ricerca della qualità, l’attenzione ai consumatori e ai mercati evoluti, le interazioni con l’economia della conoscenza pagano più di una cieca ottimizzazione e clonazione di pratiche e brand (sul tema, si rilegga anche “SACE Mag” n. 1/2015).

 

 

Come su quell’onda colossale di tanti anni fa a Rio, nel business Jorge Paulo Lemann ha sempre dimostrato coraggio e una capacità straordinaria di uscire vincitore anche da situazioni ad alto rischio. Se, nel tempo, la creatività ha ceduto il passo a logiche più lineari e quantitative, Lemann resta una fonte di ispirazione fuori dal comune: larger than life, come dicono gli inglesi, un personaggio "a grandezza più che naturale" che è impossibile non notare. Sulla tavola da surf, sulla terra rossa, o quando è intento a  rivoluzionare l’intero mercato mondiale.

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